Intravedo, nella mia generazione e non solo, una sorta di senso di rassegnazione, ma allo stesso tempo un perverso compiacimento nei confronti del mondo sociale – quindi anche quello culturale – circostante, diventato così ossessivamente votato al consumismo e all’individualismo egoistico, e diretto verso una precarizzazione degli ambiti della vita senza precedenti.

Per quanto riguarda il mondo, per così dire, “culturale”, i cosiddetti talent show sono il capolavoro di un’industria contemporanea che crea e alimenta proprio quell’individualismo egoista e quel consumismo sfrenato di cui si accennava sopra. Da un lato, in quanto mette i concorrenti dello show l’uno contro l’altro (io vinco, tu perdi, ma quel che importa è che io vinca), dall’altro perché obbliga lo spettatore ad ingurgitare un numero esagerato di immagini, suoni, canzoni preconfezionate che lascia letteralmente poco tempo e spazio alla critica da parte del già pigro (o stanco) telespettatore-consumatore spiaggiato sul divano.

Mi ha quindi entusiasmato la sfida di cultura in movimento, perché si propone di ribaltare questa concezione di cultura-consumo ormai dominante. Partire dai territori, dalle persone, dagli spettatori, i quali, attraverso i propri percorsi di vita, attraverso le proprie esperienze, sviscerando temi e quegli aspetti della vita a cui non sono più abituati di pensare in modo critico, si fanno promotori attivi di cultura e, soprattutto, nel confrontarsi, nel condividere decisioni,possono riscoprire dinamiche di comunità.

Renato Sacco (Tato)